Sin da quando nella carta delle birre di Frumento è comparsa la Nazionale di Baladin, è stata indiscutibilmente la più ordinata ai nostri tavoli.
Non abbiamo mai avuto bisogno di chiederci il perché: anche se tutte le nostre scelte coinvolgono solo piccoli birrifici artigianali, per lo più impegnati nell’ambizioso, corale progetto di costruire attorno alla birra una filiera tutta italiana, siamo sempre orgogliosi di raccontare ai nostri ospiti che questa è stata la prima birra nata solo da materie prime coltivate sul suolo nazionale e il principio da cui ha avuto inizio la nuova era della birra in Italia.
Quello che abbiamo invece avuto – eccome! – bisogno di chiederci è come sia possibile considerare rivoluzionaria una storia che in fondo non è nient’altro che il simbolo del ritorno di un prodotto agroalimentare alla sua origine, che è il lavoro agricolo. Com’è stato possibile, ci siamo chiesti, che sia stata una rivoluzione la decisione di ricordare a chi beve da quali materie prime proviene ciò che gli arriva nel bicchiere? Com’è possibile, ci siamo chiesti, che sia considerato un vero rivoluzionario colui che ha innescato l’ormai portentoso e dirompente effetto domino finalizzato a ristabilire la banale evidenza che la birra non sia altro che un prodotto della terra?
Capite bene che stiamo forzando la mano sulla provocazione, non certo verso quel genio irrequieto che risponde al nome di Teo Musso, che è il visionario padre fondatore e l’incontenibile santo protettore di questa benedetta presa di coscienza, ma verso di voi e verso noi stessi, per smascherare da bevitori il nostro paradosso. Ce lo ricordiamo tutti, ammettiamolo, il tempo in cui non ci chiedevamo cosa ci fosse fosse dentro la bottiglia da 0,33 che aprivamo alle 7 del pomeriggio e ancora in molti, ammettiamolo, potremmo sfidare amici e parenti a elencarci con quali ingredienti si fa una birra, sospettando che qualcuno potrebbe sbagliarsi. Una clamorosa distorsione percettiva del consumo industriale che non è accaduta, per esempio, al vino, nonostante sia più giovane della birra di qualche secolo ed entrambi comunque accompagnino i pasti dell’uomo da qualche millennio.
È con in testa questo paradosso che siamo andati a trovare Teo Musso.
Lo abbiamo fatto ora che, in vista della nostra apertura di Catania di cui ormai sapete tutti, ci prepariamo ad ampliare la nostra birreria in modo che rappresenti innanzitutto le intuizioni e i talenti di quello che un giorno, ne siamo certi, rappresenterà lo stile brassicolo italiano.
Volevamo avere parole nostre, per raccontarvi la sua rivoluzione, anzi: le sue rivoluzioni, lui che negli ultimi trent’anni è sempre stato il primo a demolire i grandi paradossi per ricostruire il futuro solo sulle fondamenta di grandi consapevolezze. Lui che tornando dalla Francia quand’era appena un ragazzino ha aperto una birreria nel cuore delle Langhe, dove non si era bevuto mai nient’altro che il vino. Lui che tornando dal Belgio pochi anni dopo ha sognato di metterci dentro un birrificio in miniatura quando in Italia non c’era nemmeno una legge che lo consentisse e alla fine l’impianto se l’è costruito da solo, di notte, con l’esperienza da fabbro che si era fatto a bottega dal fratello. Lui che quando si è dovuto ingrandire, spostare la produzione in un vecchio pollaio fuori dal paese, ha convinto il sindaco a scavargli lungo la strada un birrodotto, che da allora compare sulle cartine di fianco all’acquedotto. Lui che senza saper fare un solo disegno si è presentato da Rastal col progetto di un bicchiere che adesso è considerato ovunque il bicchiere di tutte le birre. Lui che sin da subito ha cominciato a sperimentare sull’invecchiamento in botte delle birre e ora stilla sorsi che hanno due lustri e sembrano whisky. Lui che nel 2006 ha piantato il suo primo luppoleto a valle del birrificio e si è dato 15 anni per chiudere la filiera e nel 2021 c’è riuscito, facendo sì che oggi il 99% delle sue materie prime siano coltivate sul suolo italiano.
Volevamo chiedergli innanzitutto questo: qual è oggi la sua anima di agricoltore, figlio di generazioni e generazioni di agricoltori, con oltre 200 ettari di campi coltivati in tutta Italia. E negli occhi gli abbiamo letto l’idea della sua prossima rivoluzione: costruire da zero una mappa dei terroir della birra, mappare l’Italia per sapere quali varietà di luppolo possono essere coltivati al meglio in quali zone, dimostrare che la personalizzazione del prodotto artigianale possa compiersi come piena espressione di territorialità, accompagnare i piccoli coltivatori in questa formazione e i piccoli produttori nell’acquisizione di questa nuova visione. Un processo che col Consorzio della Birra italiano sta portando avanti frenando gli entusiasmi e spingendo sulla ricerca, da vero capitano che è capace di allungarsi verso la porta con l’intuito e la rapidità di un grande fuoriclasse, ma che è capace soprattutto di fare squadra (e non c’è uno solo dei suoi progetti che non dica quanto gli piaccia dare priorità alla squadra).
Siamo convinti che in questo mondo stia succedendo qualcosa di molto vicino a quello che anche noi vogliamo contribuire a fare accadere nel mondo della pizza.
L’abbinamento, del resto, è sempre stato perfetto: la nostra carta delle birre è aperta alle prossime rivoluzioni!